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Martiri d'Ungheria
Il
nome Martiri d'Ungheria indica quagli uomini che morirono
durante la mancata ribellione ungherese alla dominazione dell'URSS
nel 1956. L'URSS reagi' ai ribelli ungheresi con i carri armati e la
rivolta fini' nel sangue senza, pero', nessun cambiamento nella vita
degli ungheresi.
Il detonatore della rivoluzione, come sempre, fu
un evento secondario, casuale. Il 6 ottobre si celebrava la
commemorazione di Laszlo Rajk, una delle vittime delle purghe
staliniste degli anni 40. la burocrazia sperava che i lavoratori si
sarebbero accontentati di questa sorta di funerale riparatore e la
cosa sarebbe passata inosservata. Ma al funerale parteciparono
200.000 persone. Alla fine della cerimonia, diverse centinaia di
manifestanti cominciarono a marciare verso il centro con bandiere
ungheresi e bandiere rosse cantando canzoni rivoluzionarie e urlando
“non ci fermeremo, lo stalinismo va distrutto”. Dieci giorni
dopo, all’università di Szeged, gli studenti chiesero la fine
dell’obbligo di studiare russo e scesero in sciopero. Decisero
anche di costruire un’organizzazione studentesca indipendente e
inviarono delegati alle altre università per chiedere sostegno. Il
fermento tra gli studenti segnalava l’arrivo di una tempesta
sociale. Durante la visita del leader Gero in Iugoslavia,
iniziarono una serie di riunioni. Il 22 ottobre, in una riunione
durata una giornata intera, gli studenti del Politecnico di Budapest
votarono una lista di 16 richieste e convocarono una manifestazione
per il giorno dopo in solidarietà con i lavoratori polacchi. Il
giorno dopo la manifestazione cominciò in modo disordinato. La
gente si riuniva ma non sapeva che fare. Si aveva timore di
manifestare, non c’erano strutture di lotta. Ma la comprensibile
titubanza degli studenti fu rotta con l’entrata in scesa del
proletariato. Tra le richieste degli studenti che attiravano i
lavoratori c’era il ritiro dell’esercito sovietico e
rivendicazioni sulla produzione, con la fine dello stachanovismo e
della repressione nelle fabbriche, ma anche rivendicazioni politiche
sulla fine del monopartitismo ed elezioni democratiche. Quando finì
il primo turno di lavoro, cominciarono ad affluire in massa gli
operai delle fabbriche della capitale. Il nucleo della
ribellione, per numerosità e coscienza, fu, dall’inizio alla
fine, Csepel la rossa, l’isola sul Danubio, tradizionale cuore
operaio della città. Spesso a muovere le critiche erano proletari
iscritti al partito, genuinamente convinti, in queste fasi iniziali,
di poter “persuadere” i dirigenti della bontà delle proprie
argomentazioni. D’altra parte, alle prime manifestazioni il
partito non sapeva come rispondere e temporeggiava le masse non
avevano ancora le idee chiare. C’era chi concedeva alla burocrazia
il beneficio del dubbio, chi riponeva fiducia in Nagy. Il
comportamento della burocrazia chiarì le idee a tutti. Mentre
faceva finta di cedere ad alcune richieste, preparava la repressione
tramite l’AVH, la polizia segreta. Il 23 ottobre, alla fine
di una enorme assemblea organizzata dal circolo Petofi, i
partecipanti diedero vita a un corteo non autorizzato con decine di
migliaia di persone. Era una nuova rivoluzione d’ottobre.
Davanti al parlamento, la folla, ormai radunatasi a decine di
migliaia, forse cento, centocinquanta mila persone, veniva
fronteggiata svogliatamente dalle forze dell’ordine. Capendo lo
stato d’animo della polizia, i manifestanti presero coraggio.
Anziché disperdersi continuarono a radunarsi. A un certo punto, un
nutrito gruppo si fece coraggio, si diresse verso la statua di
Stalin e iniziò a spingerla. Subito accorsero centinaia di persone.
La statua venne rovesciata. Prevaleva un clima d’animo di calma di
gioia. Ancora per poco.La statua di Stalin riversa a terra fu il
segnale per la controrivoluzione, che era giunto il momento di
agire. Una delegazione di operai entrò nel parlamento filtrando tra
le file degli uomini dell’AVH (la polizia politica). Di loro non
si seppe più nulla. La folla, in attesa del loro ritorno, cominciò
a spazientirsi. L’atmosfera di tranquilla gioia venne rotta
improvvisamente. Le mitragliatrici dell’AVH cominciarono a sparare
dalle finestre e dai tetti; la gente rispose con le armi prese alla
polizia, ma fu comunque un massacro. Si trattò di una
delle più infami atrocità della rivoluzione. Il massacro di civili
disarmati di fronte al parlamento il 25 ottobre. All’epoca si
disse che erano stati i soldati russi. Ma non fu così. I soldati
russi di stanza a Budapest non erano affidabili come carnefici della
classe operaia. Furono le mitragliatrici della polizia segreta che
cominciarono a sparare non appena giunsero nella piazza due tank
russi, chiaramente passati dalla parte dei manifestanti, con a bordo
diverse persone in festa. E' subito chiaro che la
burocrazia ungherese non ha nessuna speranza di fermare la
rivoluzione, essendogli rimaste fedeli a mala pena le sparute
squadre di AVO, che peraltro cominciano ad essere catturate e
fucilate dai rivoluzionari. Nagy decide di chiamare i carri russi.
La rivoluzione procede rapidamente, i soviet di lavoratori e
studenti formano un consiglio generale di Csepel e di Budapest in
assemblea permanente. Di fronte alla prospettiva della
nascita di un consiglio nazionale dei lavoratori, convocato per
l’11 dicembre, il governo Kadar aumentò enormemente la propria
attività di repressione. Cominciò con il rendere illegali tutti i
consigli operai non di fabbrica. L’11 dicembre arrestò i
dirigenti del consiglio operaio centrale di Budapest: il che portò
ad uno sciopero generale di 48 ore. Ma la repressione stava avendo
la meglio. Lo sciopero non riuscì. I consigli operai vennero
sciolti dalla AVH. Scioperi e una resistenza sporadica continuarono
per mesi e l’ultimo consiglio operaio venne chiuso solo
nell’autunno successivo. Ma la reazione aveva
vinto. Alla fine il governo fucilò almeno 10.000
persone. Altre stime dicono 50.000 (di cui circa 5.000 russi)
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